Morte di un commesso viaggiatore è il racconto di un dramma troppe volte taciuto dalla versione ufficiale dell’America che vediamo in televisione. È la storia di un uomo vittima del sogno americano, tanto fiducioso di poter fare successo che, quando si è accorto di non esserne capace, il peso delle sue sconfitte gli è precipitato sopra come un macigno. Così scarica le sue ansie e le sue ambizioni sui figli, dando vita a un dramma familiare che altro non è che il solito braccio di ferro di due generazioni, vittime delle stesse bugie. Era, quella raccontata da Miller, l’America del Boom economico, la nazione alla quale tutte le altre guardavano con un misto di rispetto e timore. Oggi il sogno americano è diventato il “sogno mondiale”: tutti, in qualsiasi luogo del globo, sono convinti, in un modo o nell’altro, di poter far successo, di poter riscattare la propria condizione, e come logicamente succede, solo una piccola parte ci riesce. Il resto sono gli sconfitti, gli impiegati a mille euro al mese, i poveri diavoli che si spezzano la schiena per portare avanti una famiglia e concedersi qualche piccola soddisfazione. La regia di Vincenzo Borrelli vuole sottolineare proprio questa atemporalità. È inutile, negli anni duemila, parlare del sogno americano come di qualcosa che ancora viviamo, poiché esso si è esteso ed è diventato sogno globale. C’è poi la dimensione umana che non cambia in nessuna epoca, delle piccole umiliazioni, delle attese inutili, in quelle piccole insoddisfazioni quotidiane che porteranno Willy a perdere se stesso. Il vecchio commesso viaggiatore è il simbolo di una società rimpinzata di valori, aspettative e fiducia, e che trovatasi con un pugno di mosche, si ripiega su se stessa rimettendo tutto in discussione. Troppo spesso, tuttavia, proiettarsi verso il futuro è difficile, e allora tanto vale ritrattare il passato.